Brescia alla ribalta: la città come ispirazione e laboratorio politico nel saggio di Alberto Panighetti

Recensione a cura di Virginio Mor per Brescia si legge. L’immagine di copertina, di Michele Santoro, è tratta da Brescia Vintage

“Gli occhi su Brescia. La città trent’anni alla ribalta tra Concilio e la fine dei partiti”, dell’ex avvocato di origini camune (nonché ex segretario del Pci cittadino) Alberto Panighetti, è un corposo saggio che racconta una fase cruciale nella storia di Brescia (quella compresa tra gli anni ’60 ed i primi anni ’90) durante la quale la città attirò su di sé l’attenzione dell’intera nazione sia grazie a figure emblematiche di bresciani illustri, quali Giovanni Battista Montini, Mino Martinazzoli e Luigi Lucchini, sia per le vicende stesse succedutesi molto prima e dopo la strage di piazza della Loggia, che hanno avuto un ruolo fondamentale nello svolgimento di tutta la storia italiana e mondiale, di quegli anni.

Un periodo, quello degli anni del Concilio Vaticano II, della strategia della tensione (che ebbe nella Strage di Piazza della Loggia un momento cruciale) e dello scioglimento dei maggiori partiti italiani conclusosi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, che coincide anche nel suo inizio con l’arrivo in città di Panighetti, e nella sua fine con il suo allontanamento: il libro narra dunque una storia corale ma anche personale.

Brescia città di ispirazione di Papa Montini

Secondo la tesi del libro fu l’ascesa del cardinal Giovan Battista Montini al pontificato a far puntare per la prima volta gli occhi di tutti su quella che non era solo la sua città di origine e di formazione, ma che continuava a essere, per molti versi, la fonte della sua ispirazione.

A Brescia l’Oratorio dei padri filippini di Santa Maria della Pace ospitava i principali maestri e amici del nuovo Papa e le due maggiori figure, padre Giulio Bevilacqua e padre Carlo Manziana, erano rispettivamente il maestro riconosciuto di Paolo VI e l’amico d’infanzia e di più lunga data. Fin dalla sua elezione, il nuovo Papa Paolo VI si preoccupò di tenere ben vivi i suoi contatti con Brescia, che continuavano a essere tanta parte irrinunciabile della sua ispirazione e di cui subito si servì per alimentare e mettere a fuoco il programma del suo pontificato.

Per esempio nel suo primo ritiro estivo di Castelgandolfo, dopo appena due mesi dalla sua elezione, ospitò per circa 15 giorni padre Giulio Bevilacqua, con cui meditò le prime cose mosse da intraprendere nell’imminenza della ripresa già confermata del Concilio, la cui seconda sessione si sarebbe aperta il 29 settembre di quell’anno 1963, nonché la visita in Terra Santa. Quel pellegrinaggio (che si tenne tra il 4 e il 6 gennaio 1964) non solo fu la vera occasione di presentare il Papa bresciano al mondo, ma anche, anzi soprattutto, di dare rilievo planetario al Concilio Vaticano II, come del resto fecero le successive visite del pontefice in India dal 2 al 5 dicembre 1964 e il suo discorso del 4 ottobre 1965 all’Assemblea dell’ONU, presieduta da Amintore Fanfani.

L’influenza di Paolo VI anche sulla gioventù cattolica, nei primi anni del suo pontificato, fu altissima, soprattutto a seguito della pubblicazione della sua enciclica “Populorum progressio”, il 26 marzo 1967, la quale fu la naturale esplicazione degli assunti principali della costituzione conciliare “Gaudium et spes”, di cui fu in un certo senso l’attesa continuazione. Secondo l’autore questa enciclica ispirò moltissimo gli studenti, che meno di un anno dopo daranno vita al grande movimento rinnovatore del 1968.

Gli anni ’70: grande fermento nella città-laboratorio

All’epoca del movimento del 1968, Brescia non era un importante centro universitario e perciò la città non ha potuto dare al movimento studentesco lo stesso apporto e contributo che invece poté esprimere nell’autunno caldo sindacale del 1969, quando, nella partecipazione alle lotte operaie, fu ben all’altezza della sua realtà economico-sociale di terzo polo industriale d’Italia.

I primi anni ‘70 videro in città un fermento poi ineguagliato sul piano politico e sociale, che andò dalla grande partecipazione popolare per la formazione dei consigli di quartiere in tutta la città, alle significative manifestazioni per la pace specie per il Vietnam.

Proprio nei mesi in cui Enrico Berlinguer, segretario del partito comunista italiano, lanciava la proposta del compromesso storico, Brescia era un laboratorio così fecondo di iniziative unitarie fra forze politiche storicamente assai distanti fra loro (come comunisti e cattolici democratici appartenenti ad Acli, Cisl ma anche a settori significativi della Dc) da scatenare la pesante reazione delle forze contrarie a un così pericoloso, per esse, rinnovamento. Fu il clima rovente che portò alla strage fascista del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia.

La risposta democratica alla strage fu imponente e ciò  preparò anche l’affermazione delle forze di sinistra, specie del Pci, alle elezioni amministrative dell’anno seguente, il 1975, risultato confermato anche nelle elezioni politiche del 1976.

Gli anni del compromesso storico alla bresciana

I primi anni della nuova esperienza amministrativa bresciana portarono risultati importanti sul piano della gestione del territorio, dei servizi municipalizzati (specie per l’estensione del teleriscaldamento), nel settore dell’assistenza sociale e delle iniziative culturali. Ciò contribuì grandemente a giustificare, appoggiare e sviluppare le condizioni politiche, che si sperimentavano sul piano nazionale nel tentativo di far decollare il compromesso storico, proposto poco meno di due anni prima dal segretario del Pci.

Così a metà degli anni ‘70 fu proprio Brescia ad inaugurare, a livello locale, la scelta delle “larghe intese” tra DC e Pci, che avrebbero dovuto lanciare il compromesso storico sul piano nazionale. Ma fu purtroppo un periodo che durò troppo poco e che non riuscì a dispiegarsi in tutto il suo respiro.

Le conseguenze dell’assassinio di Aldo Moro

La crisi di tale politica, ai vari livelli del Paese e quindi anche a Brescia, ruotò attorno alle conseguenze del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro nel 1978. L’autore si chiede in particolare perché non fu avviata una discussione popolare e di massa sull’opportunità o meno di accettare la condizione posta dalle Brigate Rosse per la liberazione di Moro. Secondo lui, infatti, ci sarebbe stata una ragion di Stato superiore, che avrebbe imposto di salvare Moro “a tutti i costi”: quella di salvaguardare, assieme alla vita di Moro, la politica del compromesso storico, che infatti senza di lui franò assai presto.

Nel contesto del  fallimento del compromesso storico l’autore racconta il caso bresciano anche secondo la sua personale esperienza di segretario cittadino, consigliere comunale e capogruppo del Pci in Consiglio Comunale, evidenziandone gli elementi di evidente peculiarità, soprattutto per gli anni che vanno dall’assassinio di Moro alla morte di Berlinguer nel 1984, in coincidenza della quale il Pci si affermò come il primo partito italiano alle elezioni europee di quell’anno.

In quel periodo, così breve, si passò dalla crisi del compromesso storico al lancio della nuova proposta berlingueriana della “alternativa democratica” nelle settimane del devastante terremoto che colpì l’Irpinia nell’autunno del 1980, e poi al suo dipanarsi come nuovo progetto politico da costruire nei primi anni del nuovo decennio, percorrendo l’asse della “diversità” dei comunisti italiani e della “questione morale” posta dal segretario del Pci, fino alla sua apparente sanzione popolare nelle elezioni europee del 1984 e alla sua rapida sconfitta sancita dalle elezioni amministrative dell’anno seguente e soprattutto dallo scacco subito dai proponenti il referendum sulla scala mobile del giugno 1985, che consegnò l’Italia al craxismo.

La fine delle larghe intese a Brescia

Secondo l’autore la crisi delle larghe intese al Comune di Brescia fu legata soprattutto a due fattori: alla sconfitta del movimento di partecipazione popolare, sancita dalla costituzione delle Circoscrizioni in alternativa ai Consigli di quartiere nel 1978, nonché al progressivo sfaldarsi del movimento sindacale unitario nelle fabbriche a causa della contraddittoria risposta (anche da parte della sinistra e del Pci) alla battaglia contro i licenziamenti alla Fiat nel 1980, alla linea delle cosiddette “compatibilità” delle lotte operaie rispetto alla situazione economico-finanziaria lanciata ancor prima dalla Cgil di Luciano Lama all’EUR e, localmente, dalla contrapposizione rispetto alla dura politica di indifferenza agli scioperi, sostenuta dal presidente degli industriali bresciani Luigi Lucchini, che lo avrebbe portato alla presidenza nazionale della Confindustria tra il 1984 e il 1988.

Il libro racconta quegli anni di profonda divisione all’interno della sinistra, caratterizzati dalla resa dei conti in atto a tutti i livelli nel Pci, che portò Enrico Berlinguer a constatare di essere in pratica in minoranza nella Direzione Nazionale del suo partito, in un contesto caratterizzato viceversa dalla larga mobilitazione periferica a sostegno della sua politica. L’esperienza vissuta in quegli anni all’interno della Federazione bresciana del Pci fu a questo proposito emblematica, per esempio con lo scontro, avvenuto al Congresso Provinciale del 1979, in cui fu messa in minoranza la proposta avanzata dall’ala di sinistra e filosindacale del partito (della quale ormai l’autore faceva parte) di abbandonare le larghe intese e il compromesso storico, come appunto Berlinguer propose l’anno dopo.   

Gli anni ’80: divisioni e difficoltà (anche) nel Pci bresciano

Col senno di poi l’autore riconosce che i protagonisti di quell’aspro scontro politico all’interno del Pci bresciano non risposero appieno alle aspettative perché il corpo numericamente prevalente nel Pci locale, il suo gruppo dirigente tradizionale, mancò l’appuntamento decisivo con le sue responsabilità politiche di effettivo sostegno al progetto berlingueriano. Infatti non seppe o non volle realizzare una larga convergenza che sarebbe stata possibile e necessaria con la parte più impegnata sul piano sociale (quella sindacale attorno alla Fiom-Cgil) e dei gruppi dirigenti nel partito a essa più affini (la cosiddetta ala operaista del Pci bresciano), negli anni decisivi.

Anni iniziati con l’esperienza traumatica delle elezioni amministrative del 1980 in città (all’indomani delle quali ci fu il burocratico capovolgimento, negli organismi dirigenti provinciali, del voto popolare favorevole alla sinistra interna del partito, costringendo alle dimissioni uno degli eletti in Loggia), fino alla battaglia per la difesa della scala mobile, che sicuramente per Berlinguer doveva costituire la risposta politica decisiva e, in un certo senso, il rimedio, agli occhi delle classi lavoratrici, alla politica moderata lanciata dalla Cgil di Luciano Lama all’EUR e condivisa dalle altre Confederazioni sindacali, che proprio per questo dovettero affrontare l’opposizione del movimento dei cosiddetti autoconvocati, che nacque proprio a Brescia, dove ebbe uno dei suoi punti fondamentali di riferimento.

Movimento, quello degli autoconvocati, che non aveva per obiettivo solo la lotta per la difesa della scala mobile ma quello, altrettanto importante e decisivo, del rinnovamento del sindacato e dei suoi orientamenti generali, su cui elaborò una piattaforma letta dal delegato bresciano dell’Iveco-Fiat Lorenzo Paletti alla grande manifestazione romana del febbraio 1984.

Panighetti è convinto che gli eredi di Berlinguer riuscirono a sprecare e buttare alle ortiche la più clamorosa occasione offerta al Pci in tutta la sua storia, quella del sorpasso sulla Dc realizzato alle elezioni europee del giugno 1984, nell’emozione della scomparsa del loro leader. Così, in soli tre anni, successivi a quella vittoria, riuscirono (nelle elezioni politiche del 1987) a far calare il loro consenso addirittura ai livelli di ben 25 anni prima. 

Gli ultimi anni del Pci bresciano

Un capitolo di queste incapacità di imprimere una forte direzione al partito venne scritto in quel periodo anche a Brescia, quando, l’anno dopo il referendum sulla scala mobile, al Congresso Provinciale di Brescia del 1986, le tre componenti del partito si presentarono del tutto divise (stante i continui tentennamenti di chi aveva il compito di proporre un’alleanza organica in grado di gestire il partito in quelle tempeste). Le assurde regole elettorali (imposte a livello nazionale) portarono allo scoppio clamoroso di quella contraddizione politica ed ebbero come conseguenza la prevedibile esclusione delle figure principali della componente “migliorista” (la più debole certamente sul piano numerico) dagli organismi dirigenti provinciali del partito

La delusione, espressa dall’autore per tale esito derivava soprattutto dalla constatazione che le energie, per una coerente collocazione del Pci bresciano nei suddetti anni cruciali, ci sarebbero state e l’avrebbe dimostrato, qualche anno dopo, a seguito della caduta del muro di Berlino, la battaglia giocata attorno alla proposta di Achille Occhetto di scioglimento del Pci, della rinuncia alla sua denominazione per dar vita a una nuova formazione politica.

Infatti a Brescia il “no” ha oltrepassato il 40% dei suffragi interni e, tenendo conto che, nella restante maggioranza del “sì” la componente “migliorista” era una modesta frangia, si ebbe una tardiva conferma che in precedenza sarebbe esistita nel Pci bresciano la forza per contribuire al dispiegarsi della battaglia per dare un ben diverso esito allo scontro politico decisivo svoltosi in Italia nei primi anni ‘80 fino al trionfo elettorale del Pci nel 1984, per evitare il referendum con la sconfitta epocale della sinistra nel giugno 1985, scongiurando la débâcle sancita dalle elezioni politiche del 1987.    

Mino Martinazzoli, ultimo segretario della DC

Secondo l’autore a Brescia la delusione che portò allo scioglimento del Pci non risparmiò nemmeno gli ambienti della Dc. Poiché l’ultimo segretario nazionale di questo partito fu il bresciano Mino Martinazzoli, il cui ruolo, nella decisione di metter fine politica anche al partito della Dc, non fu certo secondario nelle temperie dovute scandalo scoppiato per le clamorose corruzioni venute alla luce, all’inizio degli anni ‘90, grazie ai pubblici ministeri milanesi, e che portarono alla fine del craxismo.

Sul piano economico e industriale invece furono proprio quegli anni (a partire dalla conclusione del mandato di Luigi Lucchini alla presidenza della Confindustria nel 1988 per raggiungere la fine della storia raccontata in questo libro) che videro l’imprenditore bresciano Luigi Lucchini completare il suo impero siderurgico.

Il 1992: due messaggi (non colti) da Brescia alla nazione

L’amarezza maggiore espressa dall’autore fu che i riflettori su Brescia, in quei primi anni ‘90, si spensero troppo presto. Nel settembre 1992 vennero infatti dalla città due segnali, che, se opportunamente colti, avrebbero potuto cambiare la storia successiva dell’Italia.

Il primo riguardò proprio Tangentopoli e il suicidio del bresciano Sergio Moroni, che con quell’esperienza aveva drammaticamente a che fare. Moroni, nel suo messaggio inviato al Presidente della Camera Giorgio Napolitano per spiegare quel suo gesto estremo con la frase “Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”, parlò chiaro, ma non fu capito. Moroni gridava infatti ad un pericolo che egli avrebbe avvertito con lungimiranza e altri no: quello che stava nella sua convinzione “che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”. Egli avrebbe voluto così chiamare disperatamente a porre un argine a queste forze, facilmente individuabili e che stavano strumentalizzando “mani pulite”, per impadronirsi del potere per fini che nulla avevano appunto a che fare con il “rinnovamento e la pulizia”.

L’altro segnale salito da Brescia in quel settembre 1992 e andato in fondo nella stessa direzione indicata dal gesto di Moroni, fu la formazione della giunta guidata da Paolo Corsini, imperniata sull’alleanza fra sinistre e Dc, che metteva fine a due anni di caos nella gestione della città. Era in fondo la ripresa del tentativo di dar vita all’esperienza politica fallita in Italia alla fine degli anni settanta e che poteva forse dare una risposta positiva anche al quel drammatico appello lanciato da Moroni.

Le cose non andarono così, perché nei mesi successivi si avviò invece, sul piano nazionale, il processo, che con lo scioglimento della Dc e il mancato incontro fra il nuovo partito cattolico e la “gioiosa macchina da guerra” preparata da Occhetto per le elezioni politiche del 1994, indebolirà ulteriormente la capacità di resistenza di quelle forze del “rinnovamento e della pulizia”, cui si era disperatamente appellato Moroni e il “gesto” non riuscì perciò a ridar forza alla sua “voce”.

Martinazzoli antesignano dell’Ulivo di Romano Prodi

Solo alla fine di quell’anno 1994, dopo la sconfitta consumata sul piano nazionale, il bresciano Mino Martinazzoli seppe comunque cogliere la lezione, almeno per le conseguenze sulla sua città, dando vita a una vittoriosa coalizione di forze (quelle che non avevano saputo unirsi qualche mese prima a Roma), che lo portò nel dicembre a divenire Sindaco, facendosi così a sua volta antesignano (dopo Paolo Corsini) della futura esperienza dell’Olivo di Romano Prodi.  


Titolo: Gli occhi su Brescia. La città trent’anni alla ribalta tra Concilio e fine dei Partiti
Autore
: Alberto Panighetti
EditoreLiberedizioni

Genere: Saggio storico / Storia politica locale
Pagine: 476
Isbn: 978-8898858767

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