Intervista con Paola Baratto, autrice del romanzo “Lascio che l’ombra” (Manni 2019)
L’intervista originale, a cura di Viviana Filippini, è stata pubblicata sul blog Liberi di Scrivere (qui)
Paola Baratto, giornalista e scrittrice bresciana, è tornata da poco in libreria con “Lascio che l’ombra”, edito da Manni. Il libro è una storia nella quale il noir, il giallo, l’avventura e la storia del passato si mescolano alla perfezione in un intreccio narrativo nel quale la Giulia cercherà di capire che fine ha fatto Aris, antropologo e sociologo scomparso nel nulla. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Come è nata l’idea di “Lascio che l’ombra”?
L’impulso a scrivere una storia deriva, per me, dall’incontro di più fattori. C’è sempre una parte poetica, emotiva, immaginifica e una razionale, ovvero lo sviluppo d’una riflessione o semplicemente una serie di interrogativi. La prima è una sorta di “innamoramento”, è quello che mi fa desiderare di entrare nella storia. E di solito si tratta d’un luogo, della sua atmosfera, del suo potenziale di memorie e di poesia. Quindi, avevo in mente da tempo quella cittadina con il borgo con le sue antiche case di famiglia. Poi c’era una domanda, che mi pungolava, che fine ha fatto l’intellettuale? Quali i motivi della sua progressiva scomparsa? E c’era il personaggio di Giulia, che mi dava l’occasione di parlare un po’ della figura dello scrittore, oggi…
Aris, antropologo e sociologo scompare. Non si sa dove sia finito e cosa gli sia accaduto. Cosa spinge Giulia tornare al borgo dove lei e anche Aris vivevano?
È una domanda interessante perché, in effetti, in un primo momento Giulia potrebbe apparire semplicemente come la narratrice o come la “investigatrice” improvvisata. In realtà, anche lei sta attraversando una crisi. È una scrittrice, come Aris, con il quale ha sempre sentito di condividere un senso di complicità. Lui è più vecchio e ha avuto sprazzi di notorietà, al contrario di lei. Ma Giulia scopre che anche lui ha vissuto le stesse amare disillusioni e lo sente idealmente vicino. Tuttavia, si è anche “innamorata” di un’idea. Di un’ipotesi sulla scomparsa di Aris, che è completamente folle, ma ha una suggestiva valenza metaforica. E, come ogni scrittore, non riesce a resistere alla seduzione d’una metafora.
Quanto c’è di te Paola in Giulia, scrittrice che cerca di capire cosa si successo ad Aris?
Non è un personaggio totalmente autobiografico, ma, naturalmente, nel delinearlo mi sono appoggiata ad esperienze personali, adattandole alla storia. Ha tratti del mio carattere, per esempio quel suo essere “bastian contrario”, difetto che le rimprovera l’amica Ester. O il modo in cui l’ipotesi sul destino di Aris diventa per lei un’idea che la affascina, la perseguita e la conduce lì che è un po’ il percorso che faccio quando un progetto letterario inizia a stuzzicarmi e infine diventa una specie di assillo che m’incalza e mi spinge a scrivere.
Il libro è un noir, ma pone l’attenzione anche sulla figura dell’intellettuale e dei media. Aris intellettuale ogni volta che è invitato in tv o ad intervista appare sempre un po’ spaesato. Cosa scatena questo “sentirsi fuori luogo”?
“Le illusioni perdute” di Balzac è un romanzo ancora molto attuale. Fatte le debite proporzioni. Una volta c’erano i salotti, oggi c’è la televisione, ci sono i giornali e i social network. Da una parte erano essenziali, come lo sono oggi i media, per far conoscere gli autori e le loro opere, per lanciarli. Dall’altra, in questi contesti, il rischio è che lo scrittore si snaturi o si svilisca. Anche i salotti mondani d’un tempo imponevano ai poeti emergenti alcune condotte che con la letteratura non avevano nulla a che fare e se l’autore era molto ambizioso, come il Rubempré di Balzac, si piegava e perdeva un po’ della sua integrità, della sua autenticità. Oggi, certi contesti mediatici tendono a banalizzare i concetti, per compiacere i gusti d’un pubblico vasto. Uno scrittore come Aris, che non aspira alla visibilità fine a se stessa, ma ha solo la giusta ambizione di vedere diffusa la sua opera, si sente ogni volta svilito, sminuito.
Per quanto riguarda la parte dei testi antichi presenti nel libro come ti sei documentata?
Occupandomi di rubriche di curiosità sulla storia di Brescia e provincia, ho l’opportunità di leggere moltissimi testi e lì ho trovato alcuni spunti, che poi ho approfondito attraverso ricerche ulteriori. Per quanto riguarda due o tre libri cui faccio riferimento, invece, si tratta di materia romanzesca, che ha comunque un fondo di verità storica.
Quale è il personaggio al quale sei più affezionata e perché?
Malgrado si debba mantenere sempre “la giusta distanza” dal proprio soggetto, ovvero un ragionevole distacco, questo è un romanzo in cui sono “stata bene”. Forse, perché parlavo di qualcosa che mi toccava da vicino, lo scrivere. Quindi, un paio di personaggi li ho amati particolarmente. Come Ester, ma, soprattutto, il professor Console. Una figura di letterato puro, integro anche se un po’ naïf. Un uomo con una grande dignità e dirittura morale, che sa ammettere i propri limiti. Nobile la sua amicizia con Aris, che riconosce superiore. E mi è piaciuto narrare i suoi incontri con Giulia, perché lui è serissimo, lei ironica e questo contrasto mi suscita una divertita tenerezza.
Quanto i media manipolano le persone, il loro modi di essere e fare?
L’imperativo è omologare. Questo riguarda tutto. Perché se si vuole raggiungere un ampio bacino di pubblico, di consumatori, di lettori, di elettori… bisogna abbassare il livello e creare “sapori” omogenei, che piacciano ai più, che non disturbino, che non siano eccentrici e non abbiano una personalità troppo marcata. Al fondo c’è questo imperativo, tutto il resto, i prodotti che ne derivano e le strategie adottate sono solo una conseguenza. Quelli dell’omologazione, del pensiero unico, della soppressione delle specificità sono temi che ricorrono nei miei romanzi, li sento come questioni tanto urgenti quanto ignorate.