“La trappola nazista”: la controversa fine del comandante partigiano Raffaele Menici ricostruita e narrata da Alberto Panighetti

La parola tradimento richiama […] responsabilità della parte cui il colonnello apparteneva, quella partigiana, la cui componente prevalente in Valle Camonica viene così ingiustamente insultata, sulla base non di prove reali ma di ipotesi accusatorie che non reggono di fronte alla credibilità di altre narrazioni, la cui plausibilità storica e culturale appare, credo, di uno spessore enormemente superiore.

Alberto Panighetti, “La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici”, p. 232

“Colpito a tradimento”, così recita una lapide commemorativa posta lungo la strada statale dell’Aprica, nella bresciana Valcamonica. È la stele che ricorda Raffaele Menici, colonnello degli alpini e comandante partigiano della 54a brigata Garibaldi, trucidato con una raffica di mitra il 17 novembre 1944, nel corso della guerra di liberazione al nazifascismo. Nato a Temù il 13 dicembre 1895, Menici è stato uno dei primi organizzatori della lotta partigiana in Valcamonica e rientra a pieno titolo tra le figure più autorevoli della Resistenza bresciana. In virtù delle sue capacità e dei suoi saldi principi morali, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia era persino arrivato a proporgli il comando di un auspicato direttivo che riunisse tutte le formazioni della Resistenza in Valcamonica. Ciononostante, l’accesa disputa tra associazioni partigiane generata dalle circostanze nebulose e controverse della sua uccisione ne ha in buona parte offuscato la memoria.

Con il suo nuovo libro “La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici” (LiberEdizioni, 2024), l’avvocato e scrittore bresciano Alberto Panighetti si addentra nelle pieghe della storia per portare all’attenzione dei lettori, tra romanzo storico e saggio, quella che dopo anni di scrupolose ricerche appare a lui come la tesi più plausibile riguardo al mistero della morte di Menici. L’ipotesi, cioè, di un ben riuscito piano nazista che in un sol colpo ha eliminato un capo partigiano e gettato la responsabilità del suo assassinio sulle Fiamme Verdi, creando così una profonda frattura nei rapporti fra queste ultime e le brigate Garibaldi.

Nell’ottantesimo anniversario della morte di Menici, ecco un libro articolato che tributa il giusto ricordo a una figura chiave della Resistenza bresciana raccontandone l’ultimo anno di vita e proponendo una verosimile spiegazione della sua uccisione in un’ottica di pacificazione della memoria storica.

Sii serena e impara cosa sia veramente una vita vissuta come in questi giorni: è prova che forma l’animo e dà sapore al vivere.

Il frammento di una lettera di Raffaele Menici alla figlia Luciana, contenuto in “La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici” di Alberto Panighetti, p. 190

Secondo la storiografia ufficiale, nell’ottobre del 1944 Menici si è consegnato ai nazisti per ottenere in cambio la liberazione dei suoi familiari, arrestati a causa della sua attività fra i resistenti, oltre che per risparmiare il comune di Pezzo da una feroce rappresaglia. Inaspettatamente rilasciato dai nazisti, è stato poi da questi consegnato alle brigate delle Fiamme Verdi, affinché fosse giudicato per aver violato il codice partigiano che vietava di mettersi volontariamente in mano al nemico. Dopo averlo giudicato colpevole, le Fiamme Verdi l’hanno condannato all’espatrio in Svizzera in modo da risparmiargli la vita. A questo punto, i documenti ufficiali scarseggiano e le testimonianze si confondono. Sempre secondo la storiografia ufficiale, sarebbero stati proprio i resistenti delle Fiamme Verdi incaricati di scortarlo in Svizzera a ucciderlo sparandogli a tradimento.

Come anticipato, nella versione proposta da Panighetti sarebbero invece stati i nazisti a trucidare Menici con un agguato lungo la strada su cui veniva scortato dalle Fiamme Verdi, con il preciso scopo di addossare a queste ultime la responsabilità dell’assassinio. L’ipotetico piano dei nazisti e la sua attuazione, così come gli ultimi angosciosi attimi di Menici, sono ricostruiti con chiarezza e abbondanza di particolari nei capitoli finali del libro.

Sia l’attività partigiana di Menici, durata dall’autunno del 1943 a quello del ’44, che la trappola nazista e la sua uccisione ci vengono raccontate nella forma di un romanzo storico fitto di dialoghi. Le situazioni narrate, ricostruite con attenzione alle fonti storiche, ci fanno immergere a capofitto nel passato sin dal primo paragrafo, annullando ogni distanza temporale.

Passo dopo passo, seguiamo il costituirsi delle prime formazioni partigiane in Valcamonica, respiriamo angoscia, incertezza e avversità, percepiamo tutta la fatica di guidare una brigata di resistenti, di instaurare un dialogo con le altre formazioni e di conciliare quindi vedute differenti a fronte della comune lotta al nazifascismo. Dense e appassionanti, le pagine scritte da Panighetti fanno emergere l’idealismo puro di Menici, la sua nobiltà d’animo e l’impressionante forza di carattere da lui dimostrata nel contegno e nella serena accettazione mantenuti durante la prigionia, nel presentimento costante di un’esecuzione imminente.

L’ipotesi della trappola nazista per la uccisione del colonnello Menici è la più forte e credibile che si possa formulare sulla base di tutti i fatti noti. Perdipiù può mettere davvero fine dopo quasi ottant’anni a una disputa infinita che ha avvelenato non poco i rapporti fra associazioni partigiane e forze politiche nella nostra Valle e non solo.

Alberto Panighetti, “La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici”, p. 218

La coinvolgente narrazione dell’ultimo anno di vita del comandante Menici non è tuttavia l’unica parte che compone il libro di Panighetti. Il volume è infatti costituito da due piani indipendenti che, alternandosi fra loro, si compenetrano a vicenda. Da un lato abbiamo appunto la narrazione dei fatti al centro del libro, mentre dall’altro troviamo capitoli dal taglio più saggistico, in cui l’autore riporta sue riflessioni, oltre che conversazioni e dibattiti da lui intavolati con protagonisti e testimoni della Resistenza in Valcamonica, così come con altre figure con cui nel corso degli anni ha avuto modo di confrontarsi in merito al mistero sull’uccisione di Menici.

Panighetti sceglie la narrazione tipica del romanzo storico per ricostruire la vicenda di Menici dato che la parte documentale a disposizione è scarsa e anche perché questo genere di narrazione consente al meglio di dar spazio a sfumature, pensieri e sentimenti che vanno al cuore della vicenda. Al contempo, dipana i suoi dubbi, le sue ipotesi e infine le sue convinzioni in capitoli che testimoniano un vero e proprio atto di ricerca della verità storica. Capitoli in cui, riunendo ed esponendo tutto quanto è riuscito a scoprire sul tema trattato, smaschera incongruenze, sonda punti oscuri e testimonianze di dubbia provenienza, presenta argomentazioni e valuta pro e contro di ogni ragionamento. Al termine del libro, la sua ipotesi di una trappola nazista unica nel suo genere, suffragata dalle fonti più attendibili a noi pervenute, appare così centrata e plausibile.

La ricerca della verità sulla fine del colonnello Raffaele Menici, cui questo libro è dedicato, avrà fatto dei passi avanti davvero significativi quando Fiamme Verdi e Garibaldini decideranno di organizzare una delle celebrazioni unitarie e annuali più importanti della Resistenza proprio sul posto, statale per l’Aprica poco dopo l’incrocio con la strada proveniente dalla Val Brandèt, dove la trappola nazista realizzò i suoi piani: il luogo dove il comandante partigiano più autorevole ed amato in questi luoghi fu assassinato.

Alberto Panighetti, “La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici”, p. 231

Il dibattito sulla morte di Menici, inaspritosi negli anni immediatamente successivi alla guerra di liberazione, è stata oggetto di diverse pubblicazioni di storiografia locale. Nel 1995, Mimmo Franzinelli ha pubblicato, all’interno dei “Quaderni della Fondazione Micheletti”, un volume monografico dal titolo “Un dramma partigiano. Il caso Menici. Fiamme verdi, garibaldini e tedeschi in Alta Val Camonica”, con il quale ha sostenuto la tesi che attribuisce alle Fiamme Verdi la responsabilità dell’uccisione di Menici. Nel 2002, Ermes Gatti, presidente dell’Associazione Partigiani Cattolici, ha dato per contro alle stampe il volume “Difendo le Fiamme Verdi”, confutando tale tesi. Il mistero non è stato tuttavia risolto e le opposte posizioni di Garibaldini e Fiamme Verdi al riguardo continuano a gettare ombre sulla memoria condivisa della Resistenza bresciana.

Ma tra le pagine della grande storia, si sa, non è mai scritta l’ultima parola. Il libro di Panighetti, continuamente in cerca di una soluzione conciliativa, testimonia un preciso e significativo atteggiamento verso la storia: quello di vederla come un insieme di storie vive, in cui molto spesso l’ipotesi più scontata e plausibile è quella sbagliata, o incompleta, o manipolata. Come un insieme di storie da difendere e da studiare in un processo di ricerca della verità sicuramente difficoltoso, il più delle volte gramo, per cui occorrono dedizione, passione e coraggio. E dedizione, passione e coraggio sono senz’altro alle radici di questo libro che riesce sia a commemorare la figura del comandante Menici che a muovere enormi passi avanti nel raggiungimento di una soluzione alla controversia generata dalla sua tragica e misteriosa morte.


Titolo: La trappola nazista e la fine del comandante Raffaele Menici
Autore: Alberto Panighetti
Editore: LiberEdizioni, 2024

Genere: Romanzo storico / Saggio
Pagine: 254
ISBN: 9791255520375

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Francesca Scotti

Classe 1991. Cresciuta in Franciacorta, vive a Brescia, sua città natale. Ha studiato letteratura inglese e tedesca, laureandosi con una tesi sui rapporti fra la cultura tedesca e il nazionalsocialismo. Legge e scrive per vivere. È autrice della silloge di racconti “La memoria della cenere” (Morellini, 2016) e dei romanzi “Figli della Lupa” (Edikit, 2018), “Vento porpora” (Edikit, 2020) e "La fedeltà dell'edera" (Edikit, 2022). Anima rock alla perenne ricerca di storie della resistenza bresciana, si trova maggiormente a suo agio tra le parole dei libri e sui sentieri di montagna.

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