Le efferatezze del “Mostro di Pontoglio”, uno dei primi serial killer italiani, nel libro dell’avvocato Roberto Trussardi
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«Che cosa provavi quando uccidevi? Uccidere un essere umano ti è così facile?»
«Non è difficile. È come tirare il collo alle galline.»
Vitalino Morandini
Vitalino Morandini, classe 1916, è convinto che per raggiungere i propri obiettivi non si debba aspettare. Anzi, ciò che gli serve, lui se lo prende con la forza. E pazienza se per farlo dovrà uccidere, nell’arco della sua vita criminale, almeno dieci persone.
Sono gli anni cinquanta, l’inizio del boom economico italiano, anni in cui la gente comincia a rialzare la testa dopo la fine della guerra e inizia a credere in un futuro migliore e in sogni realizzabili. Ma in quel limbo di terra compreso tra la provincia di Bergamo e quella di Brescia, nell’area attorno al lago di Iseo che da Adrara San Rocco scende sino a Pontoglio, un uomo non la pensa come gli altri, o meglio non è disposto a aspettare.
Le efferatezze di Vitalino Morandini sono raccontate dall’avvocato e scrittore bergamasco Roberto Trussardi in un libro carico di tensione, intitolato “È come tirare il collo alle galline. I dieci omicidi di Vitalino Morandini il ‘mostro di Pontoglio'”. Un libro tutto basato su fatti realmente accaduti, che ricostruisce attingendo alle fonti del tempo la vicenda di colui che venne raccontato sui giornali nazionali del tempo come uno dei primi killer seriali italiani (La Stampa Alternativa, 2017 – acquista qui).
Le origini del primo serial killer italiano
Vitalino Morandini, nato e cresciuto ad Adrara San Rocco (Bergamo), era un bambino timido, mite, con un grande senso religioso: non era insolito, infatti, vederlo pregare per strada o sentirlo redarguire qualcuno per qualche bestemmia o parolaccia.
La sua era una famiglia di quelle povere del dopoguerra, di quelle che vivevano in vecchie cascine senza elettricità e campavano ancora esclusivamente sull’allevamento di qualche vacca. Vitalino, chiamato Angel dai suoi compaesani, sin dalla tenera età fu costretto dal padre a seguire il bestiame al pascolo, sotto la pioggia, il freddo, la neve e il sole cocente, senza cibo e con pochissima acqua. La madre non disse mai nulla, troppo impegnata a gestire le sorelle e a trovar loro un buon partito.
Per questo il motivo Vitalino si creò una corazza, una scorza che lo portò a vedere il male in tutti quelli che gli stavano intorno e a considerarsi un sopravvissuto. Crescendo cominciò a mettere in atto piccoli furti, roba di poco conto: qualche abito, qualche soldo. Scoperto dal cognato, venne denunciato e finì in carcere per alcuni mesi. Fu in quel momento che, in cuor suo e nella sua mente, decise di fare ciò che lo avrebbe reso tristemente famoso.
Una carriera da furioso omicida
Chi sarebbe Vitalino Morandini se non avesse commesso un crimine? Un signor nessuno inutile e disprezzato, un numero in mezzo a un popolo di numeri. Solo rubando e uccidendo si sentì un essere umano dotato di personalità e individualità, qualcuno tra tanti nessuno.
Uscito dal carcere, il desiderio di vendetta nei confronti del cognato “delatore” diventò il suo primo movente. Da allora la “carriera” di Vitalino continuò con una serie di furti in casa, spesso conclusi in maniera cruenta: vicende che terrorizzarono per mesi gli abitanti dei cascinali della zona e che portarono la vicenda all’attenzione della stampa del tempo.
Sino al “grande” colpo alla tabaccheria di Pontoglio, vicino alla sua abitazione, datato 23 gennaio 1956. In questa occasione, Vitalino irruppe a notte fonda nell’abitazione dei proprietari della tabaccheria del paese, uccidendo in maniera particolarmente cruenta tre persone. Fu solo grazie all’ingegno e all’intuizione di un giovane carabiniere, Nestore Battaglia, in attesa di essere espulso dall’arma per motivi politici, che uno dei primi serial killer italiani venne arrestato quasi con ancora le mani sporche di sangue.
Processato presso il tribunale di Brescia, Vitalino Morandini pronunciò in occasione di una deposizione una frase che più di tutto restituisce la sua incapacità di provare empatia: a chi gli chiese cosa provasse quando commetteva un omicidio, Morandini rispose in fatti con sufficienza: “è come tirare il collo alle galline”.
Rinchiuso nel carcere di Città Alta di Bergamo in attesa di giudizio, dichiarato capace di intendere e di volere, Vitalino Morandini venne condannato a diversi ergastoli, da scontare senza possibilità di grazia presso il carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. Carcere che non raggiunse mai, togliendosi la vita a soli quarantaquattro anni impiccandosi nel carcere di Pisa con un asciugamano.
Titolo: È come tirare il collo alle galline. I dieci omicidi di Vitalino Morandini il “mostro di Pontoglio”
Autore: Roberto Trussardi
Editore: Stampa Alternativa, 2017
Genere: Romanzo giallo
Pagine: 197
ISBN: 9788862225717
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