“Terra avara”: l’Italia contadina del Novecento nelle voci della Valverde di Botticino
Recensione di Roberto Bonzi per Brescia si legge
Con la mezzadria si faceva tutto a metà, si schiacciava l’uva, si faceva il torchiato e se alla fine erano dieci botti, cinque erano del mezzadro e cinque del padrone. Ma il lavoro era tutto nostro! Noi eravamo più liberi rispetto al Girolamo, perché Antonio controllava di meno. Quando ho preso il primo trattore, sai come era, bisognava avere rispetto del padrone e quando si faceva qualcosa bisognava chiedergli il permesso. Bisognava togliersi il cappello! Ma me m’el so mai càat… Io? Anche da picinì… Il saluto sì… Perché se incontro una persona: “Ciao! Buongiorno!” Se ta sa encòntret drè a ‘na stradela… Il saluto è dovuto!
Beppe Prati e Daniele Bonetti (a cura di), Terra Avara, dall’intervista ad Angelo Cremonesi, pag. 28
La Valverde (una spaziosa area che comprende i paesi di Botticino, Caionvico e Rezzato) è una sorta di conca che, per quanto riguarda il territorio di Botticino, risulta incassata tra i filari destinati al “Botticino rosso” e le cave dell’omonimo marmo esportato in tutto il mondo. Un tempo era una landa paludosa e inospitale a causa delle frequenti esondazioni del torrente Rino. Furono i frati benedettini nel XII secolo a deviarne il corso ma, anche dopo le opere di bonifica, l’area rimase ostica e difficile da coltivare, con rese agricole lontane da quelle della Bassa. Eppure, nel corso del Novecento, nella Valverde dominata dai nobili Cazzago sono cresciute generazioni di mezzadri. Tra questi, nella cascina al numero 13 di via Sott’acqua, c’erano anche gli avi di Beppe Prati, curatore insieme a Daniele Bonetti, del volume “Terra avara”, edito da GAM, un’opera che ha raccolto in diciassette interviste alcune delle Voci della Valverde tra mezzadria e el médol.
Il libro presenta testimonianze di contadini e contadine provenienti da famiglie coloniche, talvolta con un’esperienza anche in cava e in fabbrica. I loro ricordi, spesso frammentari ma ricchissimi di dettagli, restituiscono un ritratto intenso dell’Italia rurale del secolo scorso, un Paese povero e pieno di disuguaglianza, in cui l’agricoltura scandiva il ritmo delle giornate e l’assetto sociale sembrava destinato a durare per sempre. “Terra avara” è “una requisitoria corale sulle ingiustizie patite”, come sottolinea Massimo Tedeschi nella prefazione, perché la nostalgia, quando è sincera, non cancella la memoria della fatica, della precarietà e della guerra.
La “vita agra” nelle cascine coloniche
Noi andavamo spesso al palazzo Cazzago, quando c’erano i lavori da fare io accompagnavo il papà. Mi ricordo una volta che la padruna Angela. che era anche l’ostetrica del paese – ci controllava dalla finestra mentre dividevamo per il granoturco: riempivamo le ceste e le svuotavamo in due mucchi diversi, uno per Cazzago. Lei si era accorta subito che io avevo vuotato due volte la cesta nel mucchio nostro: “Te! Pipina! Ta set mia sbagliata?” mi ha gridato. Io ero spaventata da lei perché aveva un occhio di vetro che rimaneva sempre sbarrato, e mi faceva paura.
Beppe Prati e Daniele Bonetti (a cura di), Terra Avara, dall’intervista a Grazia Prati, pag. 135
Ogni intervista inizia con un piccolo albero genealogico. Chi risponde parte sempre da un elenco delle proprie parentele e discendenze. In paese tutti conoscevano tutti e la rete di rapporti familiari era l’unica su cui poter fare affidamento. Le cascine come quella di via Sott’acqua erano piccole comunità dove ogni risorsa doveva essere condivisa. Comunità coese ma sempre precarie perché l’11 novembre di ogni anno, nel giorno di San Martino, nessuno era al sicuro e bastava una sola parola del padrone per costringere al trasloco immediato un’intera famiglia. L’abolizione della mezzadria giungerà soltanto nel 1964 (a far corso, però, dal 1974); fino ad allora, il principio “della metà” continuerà ad essere applicato senza eccezioni ad ogni prodotto della terra, a garanzia di rendite e privilegi.
Quella degli agricoltori era una “vita agra”. Il lavoro nei campi era durissimo e coinvolgeva ogni componente della famiglia. Nelle interviste si ricordano spesso i momenti di gioco ma, con altrettanta naturalezza, quelli in cui anche i più piccoli erano chiamati a dare il proprio contributo, accudendo gli animali, incaricandosi di reperire l’acqua alla fonte o cimando il granoturco. A costo, se necessario, di sacrificare la scuola.
Un altro elemento comune era la fame. L’alimentazione della popolazione era basata principalmente su polenta e latte. La carne era un lusso della domenica e ogni parte dell’animale andava centellinata nei giorni successivi, senza sprecare nulla. Oggi viviamo nel mito fasullo dei “sapori di una volta” ma, come emerge dalle pagine di “Terra avara”, la verità è ben diversa: prima dell’avvento dell’industria alimentare, l’Italia contadina era un paese largamente denutrito, abituato a cibarsi di pochi ingredienti e preparazioni basilari. Le tipicità di cui oggi andiamo fieri non derivano da nessuna tradizione popolare perché, in verità, esistevano solo nel menù di pochi ricchi privilegiati.
La Grande Storia sullo sfondo
Io quando sono salito alle cave, nel ’45, ci sono andato con due o tre miei amici, e i cavatori erano tutti comunisti. Non vorrei dirlo – sono cose passate – ma mi avevano scaldato: gli operai… il comunismo… E a sedici anni, nel ’47, mi hanno fatto prendere la tessera del Partito Comunista Italiano. Una volta è venuto a casa nostra Milio Medaia per invitarmi ad una riunione del Partito dove era giusto andare, ma mio papà ha detto “Niente! Niente partiti! Via la tessera!” Ma da calmo, anche se era un po’ arrabbiato… Aveva visto la fine dei suoi parenti che erano comunisti al tempo del fascismo, tutti costretti a scappare all’estero.
Beppe Prati e Daniele Bonetti (a cura di), Terra Avara, dall’intervista a Massimo Prati, pag. 70
Tra gli aneddoti raccontati in “Terra avara”, ogni tanto, fa capolino la Storia. Le memorie del fascismo, della guerra, dei bombardamenti hanno uno spazio importante, anche se a volte si percepisce in alcuni intervistati una sorta di ritrosia a rievocare i momenti più dolorosi. Forse, però, il modo migliore per descriverli a chi non li ha vissuti è affidarsi al racconto della quotidianità: le foto del primo giorno di scuola con un libro preso a prestito; le scarpe indossate per la prima volta da adulti e confezionate sempre dall’unico calzolaio del paese; il freddo nelle case e le riunioni di gruppo nelle stalle; il capofamiglia o la “residura” che requisivano tutte le entrate, le nascondevano in un posto sicuro e le ripartivano all’occorrenza secondo i bisogni; il timore costante di non irritare i padroni; la paura per chi era partito per il fronte; la solidarietà delle famiglie contadine verso i mendicanti di passaggio e, in generale, verso i più poveri.
A partire dagli anni Cinquanta, molti agricoltori cominciarono a trovare impiego nelle cave di marmo, nelle fabbriche, a volte anche nel terziario, dove salari e condizioni di lavoro erano migliori. Botticino è un esempio interessante per la presenza del bacino marmifero ma anche per la vicinanza di Brescia che, nel secondo dopoguerra, offriva nuove opportunità a chi cercasse lavoro nella ristorazione o nel commercio. Molto interessanti sono le testimonianze femminili: la società patriarcale relegava le donne ai margini, ma non se si trattava di contribuire alla causa. Oltre al lavoro in casa e alle mansioni nei campi e nelle stalle, molte integravano le entrate della famiglia lavorando in filanda o nei primi calzifici e chi tra loro aveva la sventura di perdere il marito in guerra o per malattia rischiava di finire in miseria.
Il boom economico ma anche le tensioni egualitarie del secondo dopoguerra rompono i vecchi equilibri e offrono alle persone nuove prospettive. Anche se la politica resta sullo sfondo, nelle memorie della Valverde di allora si intuisce una società in trasformazione, anche nei rapporti con le istituzioni, i partiti e la Chiesa.
Una riflessione su un mondo dimenticato
Il mio matrimonio? Allora non era come adesso. Siamo andati in municipio per le pubblicazioni e poi dal parroco, don Parisio, che ha domandato a mio marito per chi aveva votato, e lui gli ha detto “No! Non glielo dico! Perché lü l’è mia drè a confessam!” “Allora io non posso celebrare la messa!” ha detto don Parisio, e Battista gli ha risposto di fare a meno. Dalla mia parte i miei parenti erano tutti molto religiosi e gli è dispiaciuto tanto. Così ci ha sposati davanti all’altare della Madonna, ma senza dire messa.
Beppe Prati e Daniele Bonetti (a cura di), Terra Avara, dall’intervista a Pierina Noventa, pag. 127
Le diciassette interviste che compongono “Terra Avara” sono una testimonianza preziosa di un mondo che rischia di essere dimenticato o, peggio ancora, travisato ad uso e consumo dei dispensatori di nostalgia. L’opera di Beppe Prati e Daniele Bonetti ha il merito di concentrarsi sul filtro più prezioso: lo sguardo di chi c’era. In ogni pagina si percepisce il rispetto con cui i curatori hanno trattato i materiali raccolti, dosando con misura, ad esempio, gli inserti dialettali e arricchendo il volume con numerose fotografie d’epoca e una mappa toponomastica della Valverde.
Il risultato finale è un racconto vivace e ricco di particolari, consigliato non solo a chi si appassiona di storia locale ma a chiunque voglia capire meglio cosa significhi davvero vivere in un Paese in cui la maggioranza della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. Il volume è dedicato “a chi ha vissuto e vivrà nella Valverde condividendo con questa terra avara la gioia, i dolori, le fatiche e le speranze per creare un mondo migliore.” In fondo, tener vive le storie di ieri resta un buon antidoto contro l’indifferenza per quelle di oggi.
Titolo: Terra Avara
Curatori: a cura di Beppe Prati e Daniele Bonetti
Editore: GAM, 2022
Genere: Storia e testimonianze
Pagine: 198
ISBN: 9788831484701
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